di Lord David William Davenport
Roma, 1979
dal Sito Web
Edicolaweb
Solo ora il problema della possibilità di vita intelligente su altri
pianeti sta prendendo piede in termini di indagine scientifica.
I primi tentativi di ricerca sono stati condotti dagli Stati Uniti e
dall’Unione Sovietica, accanto e di pari passo, ai loro programmi
spaziali, ma finora solo nel nostro Sistema Solare. Questo limite di
distanza, molto circoscritto è probabilmente principalmente dovuto
al fatto che tra gli altri problemi la nostra tecnologia non riesce
a superare quello la cui base è stata identificata da Einstein nella
teoria della relatività: la velocità della luce.
In questo caso siamo senz’altro di fronte ad una legge di fondo che
regola il rapporto materia-distanza probabilmente valida per
l’intero Universo. Tuttavia essa non necessariamente dove essere
considerata l’unica.
La ricerca futura, prima o dopo, certamente dimostrerà che
all’interno delle coordinate di Einstein, esistono leggi che
consentono il superamento della velocità della luce. Quando la
nostra tecnologia avrà capito questo "fattore X", ci sarà
probabilmente il contatto con le forme di vita intelligente
all’interno della nostra galassia.
Questo non vuol dire che forme di vita sviluppata su qualche lontano
corpo celeste siano al nostro livello di conoscenza tecnologica. Al
contrario, tutti i dati che sono in nostro possesso, da quelli
relativi ai testi antichi, agli affreschi, alle sculture e ai
disegni fino ai nostri "oggetti non identificati" sembrano
testimoniare che questi esseri già siano a conoscenza del "fattore
X".
Altrimenti, se avessero considerato la legge di Einstein come un
limite invalicabile, non avrebbero attraversato gli spazi e lasciato
presso di noi un ricordo cosi nitido della loro presenza.
Voglio parlare dell’importanza di indagare nel nostro passato.
Credo, dopo anni di ricerca, che l’approccio più importante per
capire la vita su altri pianeti e la chiave della loro tecnologia
sia proprio nell’indagine del materiale che ci viene dal nostro
passato più antico.
Questa osservazione può sembrare assurda a molti. Ed è comprensibile,
se si prende in considerazione che tutta la cultura occidentale basa
i suoi valori su quelli della società industriale, relativamente
giovane, e analizza la storia antica dal punto di vista filosofico,
mitologico e simbolico.
Tutto ciò che è antico per l’uomo moderno è simbolo di "non-cultura"
e di "non-civiltà".
Partendo da questo presupposto è comprensibile che i testi antichi
vengano interpretati come le fantasie di un popolo di selvaggi. Al
massimo si studiano gli antichi scritti orientali come manuali di
mitologia e di filosofia assieme.
Al contrario, io sono arrivato alla conclusione che questi testi
sono il racconto fedele della storia dei nostri avi, i quali avevano
molta poca fantasia e non vagheggiavano mai, come vorrebbero alcuni
linguisti occidentali, di una terra delle meraviglie.
Certamente, i dati storici sono stati mescolati, con il passare del
tempo, a quegli elementi simbolici, mitologici e filosofici che
hanno colpito i nostri studiosi. Il Ramayana, il Mahabarata e il
Rg
Veda, però, per fare gli esempi più noti, possono consentire agli
archeologi e agli studiosi di avvicinarsi con un ragguardevole
livello di approssimazione al nostro passato.
Se sono veri i dati che fanno riferimento alle città, come può
essere dimostrato dal Carbonio 14, se sono veri quelli relativi a
guerre e all’avvicendarsi delle dinastie degli Ariani, come
dimostrano le ricerche di cronologia astronomica, perché essi
dovrebbero essere falsi quando fanno riferimento a viaggi spaziali?
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Si può obiettare: perché non esisteva una
tecnologia avanzata.
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Ma la risposta è: chi ci garantisce che i nostri antenati non
abbiano visto esseri di altri pianeti o addirittura non abbiano
convissuto con loro?
Nessuno, a meno che non si invochino le "certezze" della
società
industriale moderna.
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Qualcuno potrebbe ancora notare: e più facile fare le ricerche sugli
avvistamenti moderni, visto che esiste una gran quantità di
materiale.
Bene, esaminiamo la questione da questo punto di vista.
Abbiamo anni di avvistamenti, tanti, cosi tanti da costringere
americani e sovietici ad installare centri di ricerca. Ma come si
può senza ombra di dubbio provare che un UFO è un’astronave
extraterrestre?
Dobbiamo lasciare da parte le voci, non provate, che gli americani
abbiano preso prigionieri alcuni abitanti di navicelle spaziali.
Dobbiamo lasciare da parte queste voci, perché non c’è materiale
sufficiente per condurre, a nostra volta, una ricerca.
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Esaminiamo
invece, gli "incontri ravvicinati del primo tipo", i normali
avvistamenti.
Si tratta in questo caso per lo più di oggetti volanti non
identificati che sfrecciano nel cielo, che potrebbero essere
qualsiasi cosa, in genere impossibili da identificare anche se si
usano i più sofisticati strumenti.
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Prendiamo in considerazione gli "incontri ravvicinati del secondo
tipo", quando questi oggetti lasciano impronte sulla terra,
disturbano gli animali, e a volte, lasciano ustioni, paralisi
temporanee e nausee nei presenti.
Come si fa a dimostrare senza ombra di dubbio che si tratti di
navicelle extraterrestri, solo perché segni e dati ci sembrano
"diversi" e sconosciuti?
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Veniamo ai famosi "incontri ravvicinati del terzo tipo", che
avvengono in genere in aree isolate, avanti ad una o più persone.
Per quel che si sa, gli americani girano da tempo attorno al
problema ma raramente riescono a mettere le mani su qualcosa di più
di una descrizione vaga e di alcune prove, in genere terrificanti.
Anche in questo caso siamo lontani dal riuscire ad individuare come
e perché ci siano state queste visite, quali mezzi siano stati
usati, da quali pianeti vengano le civiltà a noi sconosciute.
Al massimo si può tentare di fare una raccolta di dati, e usando le
statistiche ci si può orientare verso "qualcosa", ma difficilmente
si avrà la prova che questo qualcosa esiste veramente.
Persino nei confronti delle fotografie, la scienza più ufficialmente
scettica ha buon gioco a sostenere che esse non sono prove.
Le note fotografie di un George Adamski indicateci da Sir Desmond
Leslie, ad esempio, sembrano corrispondere a quello che immaginiamo
debbano essere le navicelle extraterrestri, per forma, dimensione e
proporzioni.
Ma nessuna prova scientifica, nessuna ricerca ci può fare affermare:
si tratta senz’altro di una navicella aliena. Senza contare che le
fotografie da sole non ci permettono di andare avanti nelle nostre
conoscenze tecnologiche, di capire quel "fattore X" cui accennavo
prima.
Tutto questo materiale raccolto ci dimostra tuttavia che il fenomeno
degli avvistamenti deve essere messo al primo posto nella nostra
ricerca scientifica.
Il problema è quello di imboccare la strada giusta.
Ed ecco che interviene l’indagine sui testi antichi. I nostri
antenati, secondo me, hanno avuto incontri del primo, secondo e
terzo tipo. In molti casi, addirittura, sembrano aver convissuto con
esseri extraterrestri per un ragionevole spazio di tempo, a
giudicare da quello che ci hanno tramandato, dalle cose scolpite,
dalle pitture e dagli affreschi, dall’esperienza che hanno
raccontato oralmente.
In questa direzione, un’importanza dominante la devono avere i testi
scritti, facilmente databili. Di per sé, nessuna scultura, nessuna
pittura prova qualcosa.
Ma se esse sono messe a confronto con quanto è tramandato, allora si
può arrivare ad una seria probabilità di successo nell’indagine
scientifica.
Prendiamo ad esempio, la pietra tombale più nota, scoperta
dall’archeologo messicano Alberto Ruz Lhullier nel 1949, nel
Tempio
delle Iscrizioni di Palenque. Sono stati scritti numerosi saggi in
genere favorevoli all’ipotesi che si tratti di una navicella
galattica. Ingegneri aeronautici, come John Sanderson, hanno
disegnato la sagoma della astronave. Ma se si arriva al fondo,
nessuno ha portato una prova inconfutabile che vada al di là di una
supposizione seppure fortemente motivata. La risposta a Palenque è
sicuramente sommersa nella letteratura e nella tradizione del popolo
che ha immaginato e ha riportato sulla pietra la "navicella
spaziale". In alcuni casi persino la letteratura cui popoli vicini
può aiutare.
Bisogna recuperare manoscritti, confrontarli, datarli, capire le
interpolazioni successive, togliere le mitologie dalla cronaca dei
fatti. Una procedura non facile, che richiede in genere, la
formazione di un tema scientifico.
Come è successo con
Mohenjo Daro.
Sono partito da una tradizione popolare di un’esplosione antica, ho
analizzato il Ramayana, ho confrontato la mia ipotesi con quella di
alcuni studiosi indiani, sono andato sul posto, ho fatto condurre le
analisi sulle pietre fuse, 2000 anni avanti Cristo, da un équipe di
geologi dell’Università di Roma.
Dopo queste operazioni, si può dire con quasi matematica certezza:
quell’esplosione non fu naturale.
E questo lo considero solo un primo passo per analisi successive che
devono scartare anche quel residuo margine di dubbio che qualcuno
potrebbe avanzare.
La stessa operazione la sto conducendo sugli avvistamenti
nell’antichità e sulle esperienze tramandate dai nostri antenati. Io
credo che nel passato sia sepolta la soluzione per il nostro futuro,
forse anche un orientamento per capire quel "fattore X" attorno al
quale stiamo girando da tempo.
Solo confrontando i dati tecnici estremamente dettagliati raccontati
dagli antichi Ariani con quelli oggi in nostro possesso, si può
capire quale probabilità c’è che entrambi siano veri.
Le fotografie di un Adamski acquistano ben altro significato se
risultano simili, come sembra, agli strumenti utilizzati sulle navi
conosciute nell’antico passato. Le pitture smettono di essere frutto
della fantasia di un artista per diventare un avvistamento reale. E
soprattutto la scienza ufficiale non ha appigli per smontare quello
che faticosamente, pezzo per pezzo, è stato oggetto di ricerca.
E solo, a mio parere, attraverso questo metodo comparativo, che un
UFO non sarà più un oggetto non identificato, ma diventerà una
navicella spaziale, identificata e concreta.
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